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Enrico Castellani
Estimate
500,000 - 700,000 EUR
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bidding is closed
Description
- Enrico Castellani
- Superficie blu
- acrilico su tela estroflessa
- cm 145,5x114
- Eseguito nel 1963
Provenance
Galleria dell'Ariete, Milano
Ivi acquistato dall'attuale proprietario
Ivi acquistato dall'attuale proprietario
Condition
This work appears to be in generally good overall condition. There are two minor and unobtrusive retouching towards the right lower margin, one along the lower left edge, two along the upper left edge and few pinpointed ones over the top of few nails visible under UV light. There are two tiny dots of indentation by the center of the left margin.
"In response to your inquiry, we are pleased to provide you with a general report of the condition of the property described above. Since we are not professional conservators or restorers, we urge you to consult with a restorer or conservator of your choice who will be better able to provide a detailed, professional report. Prospective buyers should inspect each lot to satisfy themselves as to condition and must understand that any statement made by Sotheby's is merely a subjective, qualified opinion. Prospective buyers should also refer to any Important Notices regarding this sale, which are printed in the Sale Catalogue.
NOTWITHSTANDING THIS REPORT OR ANY DISCUSSIONS CONCERNING A LOT, ALL LOTS ARE OFFERED AND SOLD AS IS" IN ACCORDANCE WITH THE CONDITIONS OF BUSINESS PRINTED IN THE SALE CATALOGUE."
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Catalogue Note
Uno dei protagonisti del vivacissimo ambiente milanese della fine degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta è Enrico Castellani, figura di grande rilievo dell’arte - italiana e internazionale - del secondo Novecento. In quel clima ricco di stimoli nuovi e fermenti culturali e sociali, Castellani si muove (insieme ad artisti quali Fontana, Manzoni, Bonalumi, Klein) verso una dimensione artistica che va oltre i confini della pittura e della scultura, oltre l’illusorietà dell’immagine, che coinvolga lo spazio reale e che - attraverso l’azzeramento delle esperienze passate - conduca ad una concezione del fare artistico come momento analitico, dell’arte come esperienza (e non come gesto), dell’opera come qualcosa di “auto rappresentante”, come “oggetto significante” in se stesso (cfr. Annamaria Maggi, Ricerca e ritmo, in “Enrico Castellani”, a cura di Marco Meneguzzo, catalogo della mostra tenuta presso la Galleria Fumagalli di Bergamo nel 1997)
Nato a Castelmassa nel 1930, studia pittura e scultura a Bruxelles e si laurea in architettura all’Ecole Nationale Supérieure de la Cambre. Nel 1956 approda a Milano dove, tre anni dopo, fonda con Manzoni la rivista e l’omonima galleria Azimuth che rappresenteranno per lui il primo e ultimo impegno di carattere collettivo. A seguito di questa breve ma profondamente influente avventura, Castellani porterà avanti una propria, rivoluzionaria ricerca che lo indirizzerà verso la ripetizione costante dello stesso gesto per decenni. Unico nel suo modus operandi, astorico, atemporale, sempre uguale, eppure estremamente nuovo.
Poco interessato all’aspetto clamoroso, provocatorio o interattivo di gesti artistici a lui contemporanei, Castellani riconosce l’indiscutibile valore delle opere dei maestri eppure se ne distacca evidenziando spesso la differenza della sua ricerca.
La sua opera, ad esempio, è stata spesso inserita e considerata all’interno del più ampio ambito dello spazialismo di Fontana, eppure un approccio operativo sostanzialmente differente li distingue. L’artista italo-argentino infrange irrimediabilmente la tela in un modo che cela ancora qualcosa di impulsivo, di emotivo. Castellani, invece, non agisce irreversibilmente sul supporto, bensì si limita a deformarlo, a renderlo percettibile attraverso una tecnica che, dal 1959 in poi, adotterà costantemente e senza variazioni.
In quell’anno Castellani abbandona le sue ricerche informali cominciando a operare in modo esattamente opposto alla logica informale ed espressionista-astratta, così come alle esperienze ottiche e cinetiche dell’arte programmata.
Egli rimane legato agli strumenti tradizionali del pittore (la tela, il telaio, il colore, i chiodi), dando vita a opere che rimangono dei quadri - dati i materiali costitutivi - ma che quadri non sono più (cfr. F.Poli, La Concretezza ritmica dell’infinito, Catalogo della mostra tenuta presso la Galleria d’Arte Mazzoleni di Torino, 25 ottobre 2013 – 31 gennaio 2014).
Tramite un uso del tutto inedito dei chiodi sulla tela - che la spingono da sopra e da sotto - crea un’alternanza e una contrapposizione fra punti introflessi ed estroflessi, fra vuoti e pieni e - conseguentemente - fra luci e ombre.
In questo modo vuole articolare la superficie e renderla tridimensionale, proprio come Fontana fa con i Tagli e con i Buchi. Infatti, al di là della differenza di approccio all’opera, entrambi i maestri mirano ad abolire i limiti della tela e a metterla in relazione con la realtà e con lo spazio circostanti. Entrambi cercano l’infinito e se Fontana lo fa permettendo al buio “spaziale” di filtrare attraverso i suoi fori e le sue fenditure, Castellani vi giunge attraverso la partitura potenzialmente infinita delle sue superfici, i cui rilievi sembrano spesso proseguire anche al di fuori del supporto. Inoltre, se le opere di Fontana ci riportano al momento dell’azione prima della rottura, Castellani esprime invece il momento di tensione che precede il punto di rottura, l’equilibrio tra le forze antagoniste che si bilanciano sulla superficie dei suoi quadri. (cfr. Arturo Carlo Quintavalle, in Enrico Castellani, Quaderni del Dipartimento di Arte Contemporanea dell’Università di Parma, n.32, 1976)
Nonostante il bianco ricorra più frequentemente nella sua produzione, lo stesso Castellani afferma che il colore gli permette - grazie al gioco di luci e sporgenze - di ottenere una vasta gamma di riflessi ed effetti sempre diversi che lo spingono verso nuove e continue sperimentazioni. E’ questo il caso della nostra rara superficie blu, realizzata nel 1963, in un periodo tra i più felici dell’artista. Sono state censite solamente quattro opere di tale misura (cm 114x146) di cui solamente due in collocazioni conosciute.
Nei primi anni del decennio “le depressioni e i rilievi si dispongono lungo linee ortogonali costruendo vere e proprie textures di intensità variabile, di colori differenti, ma sempre uniformi e di carica significativa.” (Arturo Carlo Quintavalle, in Enrico Castellani, Quaderni del Dipartimento di Arte Contemporanea dell’Università di Parma, n.32, 1976, p.16)
Castellani gioca un ruolo di primo piano nelle ricerche europee di ascendenza minimalista e concettuale e, tramite l’azzeramento delle variazioni compositive e la rigida monocromia, crea opere che aspirano solamente ad una totale impersonalità. Non c’è nulla da leggere, da interpretare, da vedere. Nulla di diverso da ciò che in effetti è.
E’ un calcolo matematico, una suddivisione della tela in parti più o meno uguali, realizzata con un reticolo geometrico elementare affinché nessuna variazione accidentale possa alterare tale impersonalità.
Definito da Germano Celant un precursore del Minimalismo, Castellani è dunque da considerare uno dei più innovativi artisti del dopoguerra che è stato capace di trovare un linguaggio unico, permanente e riconoscibile, le cui origini sono da rintracciare nell’astrattismo geometrico di Malevic e di Mondrian, nelle ricerche costruttiviste di Tatlin, in quelle concretiste di Van Doesburg o, ancora, in quelle del Bauhaus e di Albers.
Nato a Castelmassa nel 1930, studia pittura e scultura a Bruxelles e si laurea in architettura all’Ecole Nationale Supérieure de la Cambre. Nel 1956 approda a Milano dove, tre anni dopo, fonda con Manzoni la rivista e l’omonima galleria Azimuth che rappresenteranno per lui il primo e ultimo impegno di carattere collettivo. A seguito di questa breve ma profondamente influente avventura, Castellani porterà avanti una propria, rivoluzionaria ricerca che lo indirizzerà verso la ripetizione costante dello stesso gesto per decenni. Unico nel suo modus operandi, astorico, atemporale, sempre uguale, eppure estremamente nuovo.
Poco interessato all’aspetto clamoroso, provocatorio o interattivo di gesti artistici a lui contemporanei, Castellani riconosce l’indiscutibile valore delle opere dei maestri eppure se ne distacca evidenziando spesso la differenza della sua ricerca.
La sua opera, ad esempio, è stata spesso inserita e considerata all’interno del più ampio ambito dello spazialismo di Fontana, eppure un approccio operativo sostanzialmente differente li distingue. L’artista italo-argentino infrange irrimediabilmente la tela in un modo che cela ancora qualcosa di impulsivo, di emotivo. Castellani, invece, non agisce irreversibilmente sul supporto, bensì si limita a deformarlo, a renderlo percettibile attraverso una tecnica che, dal 1959 in poi, adotterà costantemente e senza variazioni.
In quell’anno Castellani abbandona le sue ricerche informali cominciando a operare in modo esattamente opposto alla logica informale ed espressionista-astratta, così come alle esperienze ottiche e cinetiche dell’arte programmata.
Egli rimane legato agli strumenti tradizionali del pittore (la tela, il telaio, il colore, i chiodi), dando vita a opere che rimangono dei quadri - dati i materiali costitutivi - ma che quadri non sono più (cfr. F.Poli, La Concretezza ritmica dell’infinito, Catalogo della mostra tenuta presso la Galleria d’Arte Mazzoleni di Torino, 25 ottobre 2013 – 31 gennaio 2014).
Tramite un uso del tutto inedito dei chiodi sulla tela - che la spingono da sopra e da sotto - crea un’alternanza e una contrapposizione fra punti introflessi ed estroflessi, fra vuoti e pieni e - conseguentemente - fra luci e ombre.
In questo modo vuole articolare la superficie e renderla tridimensionale, proprio come Fontana fa con i Tagli e con i Buchi. Infatti, al di là della differenza di approccio all’opera, entrambi i maestri mirano ad abolire i limiti della tela e a metterla in relazione con la realtà e con lo spazio circostanti. Entrambi cercano l’infinito e se Fontana lo fa permettendo al buio “spaziale” di filtrare attraverso i suoi fori e le sue fenditure, Castellani vi giunge attraverso la partitura potenzialmente infinita delle sue superfici, i cui rilievi sembrano spesso proseguire anche al di fuori del supporto. Inoltre, se le opere di Fontana ci riportano al momento dell’azione prima della rottura, Castellani esprime invece il momento di tensione che precede il punto di rottura, l’equilibrio tra le forze antagoniste che si bilanciano sulla superficie dei suoi quadri. (cfr. Arturo Carlo Quintavalle, in Enrico Castellani, Quaderni del Dipartimento di Arte Contemporanea dell’Università di Parma, n.32, 1976)
Nonostante il bianco ricorra più frequentemente nella sua produzione, lo stesso Castellani afferma che il colore gli permette - grazie al gioco di luci e sporgenze - di ottenere una vasta gamma di riflessi ed effetti sempre diversi che lo spingono verso nuove e continue sperimentazioni. E’ questo il caso della nostra rara superficie blu, realizzata nel 1963, in un periodo tra i più felici dell’artista. Sono state censite solamente quattro opere di tale misura (cm 114x146) di cui solamente due in collocazioni conosciute.
Nei primi anni del decennio “le depressioni e i rilievi si dispongono lungo linee ortogonali costruendo vere e proprie textures di intensità variabile, di colori differenti, ma sempre uniformi e di carica significativa.” (Arturo Carlo Quintavalle, in Enrico Castellani, Quaderni del Dipartimento di Arte Contemporanea dell’Università di Parma, n.32, 1976, p.16)
Castellani gioca un ruolo di primo piano nelle ricerche europee di ascendenza minimalista e concettuale e, tramite l’azzeramento delle variazioni compositive e la rigida monocromia, crea opere che aspirano solamente ad una totale impersonalità. Non c’è nulla da leggere, da interpretare, da vedere. Nulla di diverso da ciò che in effetti è.
E’ un calcolo matematico, una suddivisione della tela in parti più o meno uguali, realizzata con un reticolo geometrico elementare affinché nessuna variazione accidentale possa alterare tale impersonalità.
Definito da Germano Celant un precursore del Minimalismo, Castellani è dunque da considerare uno dei più innovativi artisti del dopoguerra che è stato capace di trovare un linguaggio unico, permanente e riconoscibile, le cui origini sono da rintracciare nell’astrattismo geometrico di Malevic e di Mondrian, nelle ricerche costruttiviste di Tatlin, in quelle concretiste di Van Doesburg o, ancora, in quelle del Bauhaus e di Albers.
Quando una superficie, una tela, viene suddivisa anche da una sola linea, si creano dei rapporti conflittuali, si dà sempre adito ad un’ interpretazione. Ecco, io volevo che ciò che facevo fosse indiscutibile, non interpretabile, qualcosa che c’è e basta.
(Enrico Castellani)