Lot 34
  • 34

Alberto Burri

Estimate
300,000 - 400,000 EUR
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bidding is closed

Description

  • Alberto Burri
  • Bianco 1952
  • firmato e datato 52 sul retro
  • sacco, stoffa, olio, combustione e vinavil su tela
  • cm 45x39,5

Provenance

Collezione Luisa Laureati, Roma
Collezione Jacorossi, Roma, acqistato all'inizio degli anni Novanta

Condition

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Catalogue Note

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L’opera Bianco, facente parte di una delle tante serie che l’artista umbro realizzò nell’arco della sua carriera, è del 1952, anno che lo vide presente all’Obelisco di Roma con la mostra Neri e Muffe. L’Obelisco, piccola galleria sita in via Sistina, venne inaugurata nel 1946 grazie all’impegno dei coniugi del Corso (la giornalista di moda Irene Brin e suo marito il Generale Gaspero) i quali avevano intrapreso l’attività di galleristi nel 1943, presso una libreria-galleria il cui nome era La Margherita: luogo in cui Burri esordì la prima volta nel 1947 con dei lavori ancora figurativi e nel 1948 con la personale Bianchi e Cretti. La stampa dell’epoca non fu clemente tacciandolo di essere un ciarlatano, non assimilabile a nessun movimento artistico, tantomeno a quegli astrattisti che fecero fatica quasi quanto lui a trovare una collocazione nel panorama artistico nazionale. Ma i del Corso, pionieri nella scelta di giovani artisti promossero tra gli altri anche lui, il quale, come scrisse Gaspero in una nota del 1953, lavorava in “un sinistro studio sito in via Margutta 17”[1], ed è forse proprio Gaspero il vero artefice della fortuna di Burri, perché la Brin rivelerà qualche anno dopo che: “Quando Burri ci mostrò le prime Combustioni io le trovai orribili. […] Quando Bob Rauschenberg ci presentò i suoi lavori io mi misi a ridere. […]”[2]. In effetti Rauschenberg, durante il suo primo soggiorno in Italia, nel 1953, rimase colpito, tra gli artisti italiani, proprio da Burri che andò a trovare due volte nello studio di via Margutta. Alberto Burri espose alla Galleria L'Obelisco di Roma con tre personali, la prima Neri e muffe nel 1952, la seconda Burri nel '54 e la terza Alberto Burri. Combustioni nel 1957, poi in varie collettive tra il 1953 e il 1970. La produzione dei così detti “Bianchi” va dal 1952, due anni dopo la creazione del primo “Sacco” esposto dall’artista, al 1956. E’ in questo momento che inizia ad alternare sul telaio i sacchi grezzi a zone di pittura, senza sovrapporli ma anzi accordandoli. Il bianco calce viene accostato al nero e in alcune occasioni al rosso, dando risalto alla tela del sacco, la quale accoglie sulla sua superficie il colore. Molti critici hanno definito l’articolazione spaziale di Burri tipicamente italiana perché non si tratta di incollare dipingendo, come fu per il cubismo e per certo dadaismo, ma di intendere la superficie dialettizzando gli spazi di materia con quelli della pittura, sottolineandone una cupa e vivente sostanza o un incredibile possibilità di grazia. Le nozioni scientifiche ed estetiche di una tradizione che diventano bagaglio di civiltà e storia vanno via via modificandosi dai primissimi sacchi, coerenti e sapientemente organizzati da un punto di vista estetico, ai Bianchi, dove invece l’azione dell’artista ferisce, brucia, ricuce le superfici richiamando alla nostra mente aspetti inconsci e visioni freudiane legate alla sessualità, al dolore e alla morte. Le stesure dei bianchi, rossi e neri che in moltissimi lavori entrano in gioco come contrappunto cromatico "puro" sono una sorta di sublimazione dei materiali all'interno dello spazio della composizione pittorica. La pregnanza vissuta dei materiali, gli squarci, le rosse "ferite", le bruciature, ha legittimato, come si è detto, ogni possibile lettura in chiave di sofferte metafore esistenziali, ma, d'altro canto, l'impaginazione di classica eleganza formale consente e suggerisce una valutazione estetica che va al di là delle troppo condizionanti interpretazioni contenutistiche.
Giulia Tulino – Dottoranda di ricerca presso la cattedra di Storia dell’arte contemporanea dell’Università La Sapienza di Roma e collaboratrice della InarsArtGallery - Gruppo Jacorossi.
[1] L. Lambertini, Morto Gaspero Del Corso il gallerista che scoprì Burri , in "Corriere della sera", 31 ottobre 1997;
[2] I. Brin, Autoritratto di una moglie, in “Corriere della Sera”, Milano 8 giugno 1963

Delicatamente instabile e brutalmente ferita, Bianco 1952 è il frutto delle sperimentazioni d’avanguardia di un artista che velocemente ha raggiunto la piena consapevolezza del suo personalissimo modo di fare arte: i crateri, le lacerazioni, le macchie della tela, si impongono sul supporto martoriato senza indugi.

Apparentemente simile ad un collage, Burri rifiuta qualsiasi possibile interpretazione tradizionalista dello stesso: non un trompe-l’oeil di vocazione cubista, né un lavoro di sovversione in spirito dadaista. Diversi sono i materiali utilizzati nell’opera, diverse le loro consistenze; più che dialogare tra loro allora, come ci si aspetterebbe in un collage, sembrano invece discutere, farsi la guerra. E di fatto le parti che compongono il lavoro non sono neppure giustapposte, semmai sovrapposte: il tondo rosso ad esempio, un sole ribollente, una macchia di sangue, pretende di essere presente, come un fungo, una malattia. Bianco 1952è allora una parodia di un collage, senza intenti di rivolta, senza risvolti ironici.

Nonostante l’evidente crudezza dell’opera, costante susseguirsi di parti asettiche e altre molli, viscerali, non si può non riconoscere nell’opera una poeticità toccante, fatta di continui richiami al quotidiano, alla condizione, a volte misera, dell’uomo.

“ […] Dolcissime o astruse o preziose reminiscenze delle materie quotidiane, investite da una esaltazione concettuale e da una severità oggettiva che stupiscono come segnale di grandi smarrimenti, e di temi mescolati sottoterra e poi rimossi, con il fresco dei bulbi e radici dagli sterri, calcine e zucchero, miche e vermi…” (Villa, 1953)

The masterpiece Bianco is part of a series that the artist realized his career, it was made in 1952, the same year in which he exposed his works in the exhibition Neri e Muffe held in Rome at Obelisco Gallery. Obelisco, a small gallery in via Sistina, launched in 1946 thanks to the  spouses del Corso (the fashion journalist Irene Brin and her husband General Gaspero) who undertook the gallery activity in 1947 among a gallery-library called La Margherita where Burri made his first appearance in 1947 with figurative works and in 1948 with the personal exhibition Bianchi e Cretti. Press reviews accused him to be a charlatan that didn’t relate to any artistic movement together with other abstract artists who didn’t find a position in the national artistic world. By the way, the spouses del Corso, pioneers in discovering young artists, sponsored Burri who, as Gaspero wrote in 1953, used to work in “a sinister studio in via MArgutta 17”[1]. Probably Gaspero was the real maker of the artist’s fortune as Brin said some years later: “When Burri showed us his first Combustioni I found them horrible. […] when Bob Rauschenberg presented us his pieces I started laughing. […]”[2]. Effectively Raushenberg, during his first stay in Italy, in 1953, was amazed by Burri’s works and visited him twice in his studio in Via Margutta. Alberto Burri had three personal exhibitions at L’Obelisco Gallery in Rome, the first one was in 1952 Neri e Muffe, the second one was Burri in 1954 and the third one Alberto Burri. Combustioni in 1957, while from 1953 to 1970 he exposed in many collective exhibitions. The artist started to work at the series Bianchi in 1952, two years later his first “Sacco”, and continued until 1956. During this period the artist started to alternate rough sacks with peinture, combining them and avoiding overlap. White lime was put together with black and sometimes red colour bringing out the coloured sacks. Many critics defined Burri’s spatialism tipically Italian because he didn’t work pasting  pieces on the canvas and then painting on them, as for Cubism and Dadaism, but he worked on the surface alternating materials and painting giving to the work a sense of melancholy or an astonishing grace. It is possible to see in Burri’s works how the scientific and aesthetic notions from the cultural history changed from his first coherent and aesthetically well organized Sacchi to Bianchi where the artist acts cutting, burning and mending the surfaces, reminding us visions of Freudian sexuality, pain and death. The use of rough materials, lacerations, red “wounds” and burning signs legitimize any tormented metaphor, but on the other side the classic refined layout suggest an aesthetic valuation that goes beyond  the strict content’s interpretations. 

Gently unstable and brutally wounded, Senza titolo is the result of the avant-garde experimentations of Alberto Burri, an artist that has soon reached the full maturity of his extremely personal way of producing art: the “craters”, the tears, the stains of the canvas, they all impose themselves, violently, on the tortured support.

Apparently close to a collage, Burri refuses every kind of traditional interpretations of it: not a cubist trompe-l’oeil, not a subversive Dadaist work. All different from each other, the materials that define the work of art, as well as their consistencies, do not dialogue, as it is expected to happen in a collage, but they argue, they make war. To a closer view, the parts that compose the work are not even juxtapose, but superimpose; the red dot, for example, a burning sun, a blood spot, pretends to be present, as a fungus, a disease. Senza titolo is for instance the parody of a collage, without any subversive intent, without any ironic implication.

Among the evident bluntness of the work, constant sequence of aseptic and weak, flaccid parts, it is impossible not to recognize a very touching poetry, made of a feeling of the every day life that recalls the sometimes miserable condition of the human being.

“[…]Luscious or abstruse or precious memories of everyday materials, hit by a conceptual exaltation and by an objective severity that amazes as a signal of great loss, as mixed themes underground and then removed, with the coolness of the bulbs and roots by earthworks, limes and sugar, mica and worms…” (Villa, 1953)

Intervista di Micol Forti, direttore della Collezione d’arte contemporanea dei Musei Vaticani a Ovidio Jacorossi

 Per un collezionista ogni opera rappresenta il tassello di un prezioso mosaico, emotivo e intellettuale; un mosaico in cui convergono ricordi e aspirazioni, idee ed inclinazioni, progetti e conquiste. Un tessuto in cui trama e ordito si fondono in una visione molteplice e armoniosa ad un tempo. È questo lo spirito con cui un collezionista come Ovidio Jacorossi ha avviato la sua splendida raccolta, a partire dagli anni ’60, per amore e amicizia dei tanti artisti, galleristi, critici e intellettuali che animavano il panorama culturale romano. Ovidio quale è stato il tuo primo contatto con Alberto Burri?

 Ho conosciuto Burri attraverso un amico comune, Plinio De Martiis, il più grande gallerista romano dei magnifici anni ‘60, dalla cui galleria sono usciti Cy Twombly, Mario Schifano, Tano Festa, Mario Ceroli, Giosetta Fioroni e tanti altri bravi artisti.
Nato nella terra di San Francesco, Burri coniugava umiltà e rigore di vita, fantasia e razionalità. Viveva a Città di Castello in una casa semplice come semplici erano i materiali delle sue opere ai quali dava una nobilitazione trascendente.

Quale è stato il vostro rapporto, quali gli argomenti delle vostre conversazioni, tra te che eri un giovane e coraggioso collezionista e Burri che era un artista affermato con alle spalle una carriera contrappuntata da successi e “scandali” derivati dalle sue ricerche materiche?

Un giorno a colazione da me, conversando sull’arte contemporanea, mi disse che per diventare artista il primo esercizio da fare è mettersi davanti un oggetto o un vaso e copiarlo, copiarlo più volte!
La frase mi apparve molto strana perché non essendo lui un pittore figurativo mi sarei aspettato un suggerimento più complesso. Pensai, allora, che volesse sottolineare l’importanza ed il valore della forma per qualunque tipo di pittura, oppure che con quella frase elementare volesse sollecitare in me una provocazione interpretativa come accade quando ci si trova davanti ad un’opera concettuale.

 Il “Cellotex” presente nella tua collezione è un’opera di grande importanza che ben rappresenta le ricerche di Burri negli anni ’80, quando in linea con quanto sperimentato sui materiali plastici o industriali, ne mette in evidenza la “povertà” – il cellotex altro non è che segatura compressa e colla – ma soprattutto la “poesia”. Un materiale che l’artista usava prima come fondo delle sue composizioni, è via via affiorato in superficie divenendo protagonista della sua ricerca artistica tra gli anni ’70 e ’90.Come entra questo lavoro nel ricco tessuto che è la tua collezione?  

 Ho acquistato direttamente da lui nel giugno del 1986 “Multiplex”, un’opera con bassa tiratura costituita da 10 elementi. Era destinato ad una mostra sui temi dell’energia e dell’elettronica realizzata dal nostro gruppo a Palazzo Sagredo a Venezia con opere commissionate direttamente agli artisti.
Successivamente, nel maggio del 1987 come Gruppo Jacorossi organizzammo con l’Unione degli Industriali di Roma, nell’ex Birreria Peroni, una mostra di opere create da Burri negli ultimi dieci anni su tre cicli (della vita?): Il Viaggio, Sestante e Annottarsi. Il rigore di Burri è evidente anche nell’accuratezza del catalogo.
L’iniziativa coinvolse anche il Comune di Roma e l’Università la Sapienza. Il curatore Maurizio Calvesi scrisse in un lungo testo che il percorso di Burri esprimeva “una animazione della materia e dei colori”.

 Il vostro rapporto è proseguito negli anni: puoi raccontare solo un episodio che getti una luce “personale” su questo grande artista, in questi giorni celebrato a New York con una grande mostra monografica al Guggenheim Museum?

In occasione del Campionato Mondiale di Calcio in Italia del 1990 Luca di Montezemolo, responsabile dell’organizzazione, mi chiese un parere sulla individuazione dell’artista a cui affidare la realizzazione della locandina che in ogni mondiale concorre a storicizzare l’evento.
Montezemolo aveva pensato ad un altro artista, ma io proposi Burri perché era il più grande artista concettuale italiano vivente. Andammo a casa di Burri a Città di Castello e lui fu ben lieto di poter realizzare la sua locandina.